La sera del 14 giugno Uva, 43 anni, si trovava con un amico, Alberto Biggiogero. Dopo aver guardato una partita di calcio e aver bevuto alcuni bicchieri i due escono in centro dove spostano alcune transenne da un marciapiede alla strada. È a quel punto che una pattuglia di carabinieri li raggiunge e li conduce in caserma con il supporto di altri sei poliziotti. Nessun verbale viene notificato, nessun fermo o arresto eseguito. Nessuna comunicazione viene trasmessa al magistrato di turno.
Dopo un'intera notte in caserma, all'alba Giuseppe Uva viene portato in ospedale per un trattamento sanitario obbligatorio e muore poco dopo. Il giorno seguente l’amico sporge denuncia per quello che è avvenuto in caserma. Racconta di aver sentito le grida di aiuto e di dolore di Giuseppe intervallate dal rumore di colpi sordi. Dice di aver cercato di recarsi da lui ma di essere stato bloccato. Riferisce di aver chiamato il 118 dicendo all’operatore che in caserma stavano “massacrando un ragazzo” ma nessuno arriva. Una minuziosa ricostruzione di quella assurda notte è stata fatta dal presidente di A Buon Diritto, Luigi Manconi, e dalla direttrice Valentina Calderone in un articolo su Internazionale.
Le primi indagini sulla morte di Giuseppe Uva, condotte dai pm Agostino Abate e Sara Arduini, partono con gravi lacune e si concentrano solo su quanto accaduto in ospedale ignorando del tutto la denuncia del testimone oculare Biggiogero, che verrà ascoltato solo nel 2013, cinque anni dopo i fatti. Nel 2014 avevamo pubblicato i video di questo interrogatorio, per mostrare la condotta intimidatoria del pm Abate nei confronti del testimone. Qui un piccolo estratto.
Per non aver indagato su quanto accaduto in caserma il pm Abate andrà incontro a due procedimenti disciplinari e alla fine gli verrà tolto il fascicolo delle indagini. Il nostro presidente Luigi Manconi si è inoltre sottoposto a interrogatorio del pm Abate nella vicenda di Giuseppe Uva. Qui un momento dell’interrogatorio:
La prima inchiesta per la morte di Giuseppe è per omicidio colposo e vede imputati tre medici del pronto soccorso e del reparto psichiatrico dell’ospedale di Varese. L’accusa è che i farmaci somministrati a Uva fossero incompatibili con il suo stato etilico e che l'unione di quei medicinali con l’alcol avrebbe causato un’insufficienza cardiorespiratoria e un conseguente edema polmonare terminale.
Dopo ulteriori indagini, nel 2014 i due carabinieri e i sei poliziotti della caserma vengono rinviati a giudizio con l’accusa di omicidio preterintenzionale, percosse, sequestro di persona e abbandono di incapace, ma nel 2016 vengono assolti in primo grado. Nel maggio 2018 la Corte d'Appello conferma la sentenza di primo grado assolvendo gli imputati "perché il fatto non sussiste". Nel 2020 la Cassazione conferma l'assoluzione. A quel punto i familiari e gli avvocati di Giuseppe decidono di fare ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani.
Gli interrogativi più importanti restano ancora senza risposta: come si è potuto trattenere in caserma per ore, senza alcun titolo, un libero cittadino? Come e chi ha procurato a Giuseppe Uva i numerosi lividi e le ferite? Qual è la spiegazione degli ematomi e del sangue sul suo corpo e sui suoi vestiti?
A gennaio 2021 la CEDU ha accolto il ricorso presentato dagli avvocati della famiglia, Stefano Marcolini, Fabio Matera e Fabio Ambrosetti.
L’iter della decisione sulla vicenda di Giuseppe Uva sarà ancora lungo e l’esito non è assolutamente scontato, ma intanto uno spiraglio di speranza si è aperto e restituisce un po’ di giustizia alla famiglia e alla persona che in questi tredici anni si è battuta più di tutti per avere verità per Giuseppe: sua sorella Lucia Uva.
Restiamo al fianco della famiglia Uva, e continuiamo a chiedere verità e giustizia per Giuseppe.