Nel giardino di casa le forze dell'ordine trovano qualche pianta di marijuana che Bianzino dichiara subito essere per uso personale. Sia lui sia Roberta vengono portati in carcere e due giorni dopo, il 14 ottobre 2007, Aldo viene trovato privo di vita nella sua cella.
Il giorno del decesso di Aldo Roberta Radici viene chiamata a colloquio dal viceispettore del carcere che non la informa della morte del compagno ma le domanda se Aldo avesse patologie pregresse. Nel rispondere di no Radici chiede preoccupata dello stato di salute di Aldo e il dirigente risponde che è stato portato in ospedale ed intubato e che gli è stata fatta una lavanda gastrica. Dopo il colloquio Roberta viene riportata in cella e alcune ore dopo viene scarcerata. Prima di lasciare il carcere domanda quando potrà rivedere il suo compagno. La risposta è lapidaria: “Martedì, dopo l’autopsia”.
È con questa modalità che Roberta viene informata della morte di Aldo, una modalità che troppo spesso è stata utilizzata in altre vicende di violenza e abusi da parte delle forze dell'ordine e che tanto colpisce per la sua crudeltà. In un primo momento la morte di Aldo fu imputata a un aneurisma, ma la ricostruzione apparve fin da subito dubbia, in particolare perché una prima perizia eseguita da un medico legale di parte rilevò sul cadavere ematomi cerebrali e danni al fegato incompatibili con un semplice malore. L’ipotesi del medico fu quella di un pestaggio eseguito con tecniche "militari" solitamente utilizzate per danneggiare gli organi vitali senza lasciare tracce visibili sul corpo. Ma la Procura non accolse questa ricostruzione e nel 2009 archiviò l’indagine per omicidio. Nel 2015 un agente di polizia penitenziaria è stato condannato in via definitiva a un anno di carcere per omissione di soccorso.
Nuovi esami hanno fatto emergere che le lesioni al fegato e al cervello sono avvenute mentre Aldo Bianzino era ancora vivo e che i traumi sono stati provocati da qualcuno, il che non coincide con la ricostruzione fatta durante il processo e con la versione della morte naturale. Dopo la morte di Aldo Roberta Radici inizia una battaglia per ottenere verità e giustizia, battaglia che ha portato avanti fino al 2009, quando si ammala di tumore. A quel punto è il figlio di Roberta e Aldo, Rudra Bianzino, a continuare la battaglia per suo padre.
Nell'aprile 2018 Rudra ha deciso di depositare presso la Procura di Perugia la richiesta di riapertura del caso. Contemporaneamente Rudra ha lanciato una petizione per chiedere l'istituzione di una Commissione di inchiesta parlamentare sui casi di abusi da parte delle forze dell’ordine nel nostro paese.
Per dare risonanza a queste nuove indagini e alla testimonianza di Rudra, dei suoi avvocati e dei medici legali, nel maggio 2018 A Buon Diritto ha organizzato al Senato una conferenza stampa:
Per ricordare Aldo Bianzino e per far conoscere la sua storia abbiamo organizzato spettacoli teatrali, iniziative pubbliche e dibattiti istituzionali, redatto articoli e approfondimenti. La storia di Aldo si trova anche nel libro “Quando hanno aperto la cella. Storie di corpi offesi. Da Pinelli a Uva, da Aldrovandi al processo per Stefano Cucchi” (2011), a cura di Luigi Manconi e Valentina Calderone, presidente e direttrice di A Buon Diritto.
Oggi, a 15 anni dalla morte di Aldo Bianzino, ancora non è stata fatta giustizia. Non bisogna lasciare in alcun modo che su questa vicenda cali il silenzio, e per questo è necessario continuare a parlare della storia di Aldo, a portarla in giro, a denunciare, e a pretendere che le istituzioni diano finalmente risposte concrete.