Pubblicato in 2021, Le notizie del portale a buon diritto il 12 gen, 2021
Il disonore sulla rotta dei Balcani
Un articolo di Luigi Manconi su La Repubblica del 9 gennaio 2021.
La lingua dell'ordine costituito e dello Stato, anche di quello democratico, può essere tanto crudele quanto insensata. Per un profugo afgano o nepalese, arrivato nell'Italia orientale, il provvedimento di "riammissione" comporta seguire a ritroso l'itinerario che l'ha portato dalla Bosnia a Udine o Gorizia, passando per la Croazia e la Slovenia. E tutto ciò lungo una via crucis di successive stazioni, percorse — come in una fosca rappresentazione penitenziale — a piedi nudi, e scandite da umiliazioni e sevizie. Si legga, in proposito, l'intervista di Fabio Tonacci, su Repubblica di martedì scorso, a Osman, profugo pachistano, che per quindici volte ha tentato quella rotta dei Balcani definita — ancora una perversione del linguaggio — Game (gioco, partita); e che solo ora, da Trieste, può esercitare il suo diritto a chiedere asilo.
Molti sono i drammatici paradossi di questa vicenda. Le vittime della più recente catastrofe umanitaria, in atto sotto i nostri occhi e proprio dietro l'angolo, comunicano attraverso una delle applicazioni più scaricate al mondo: Tik Tok. Quando, nel 2016, venne lanciata sul mercato internazionale, lo slogan era: "Dai importanza a ogni secondo, ovunque tu sia". Il 23 dicembre scorso, su Tik Tok, è apparso un video che, di secondi, ne contava appena venti e mostrava il campo profughi di Lipa, in Bosnia, devastato dalle fiamme. Ma quell'istante di orrore, in un mondo interconnesso e integrato (un profugo indossa una felpa con la scritta: "Rugby Brescia") vale appunto un istante: è un'immagine tra un milione di immagini. Abbiamo difficoltà a memorizzarla e a concettualizzarla. E fatichiamo a realizzare che, a 60 km da quel campo profughi, c'è la Croazia e, quindi, l'Europa. Proprio lungo quel confine, tra gennaio e novembre del 2020, il Danish Refugee Council, un'autorevole Ong fondata nel 1956, ha documentato 15.672 respingimenti dalla Croazia verso la Bosnia, qualificandone come "violenti" il 60%.
Fino a qualche tempo fa, il rispetto delle convenzioni internazionali sul diritto di asilo veniva aggirato dall'Unione Europea attraverso l'esternalizzazione delle frontiere, garantendo risorse economiche e accordi politici a Paesi (come il Niger e la Turchia) ai quali veniva delegato il "lavoro sporco". Oggi, ecco l'imbarazzante novità, ciò che avviene è la sistematica persecuzione dei richiedenti asilo all'interno degli stessi confini dell'Unione. Nel corso del 2020, secondo i dati del Viminale, l'Italia ha "riammesso" in Slovenia 1.240 persone, che poi, da lì, attraverso la Croazia, sarebbero state riportate a forza nel territorio della Bosnia ed Erzegovina. Ne consegue che, in spregio del diritto internazionale, tre Paesi membri dell'Ue costituiscono la catena di una intensa politica di respingimenti.
Nel luglio scorso, rispondendo a un'interpellanza del deputato di +Europa, Riccardo Magi, il sottosegretario al ministero dell'Interno, Achille Variati, affermava che la riammissione veniva attuata nei confronti di quanti fossero «rintracciati a ridosso della linea confinaria» italo-slovena, qualora «la richiesta di riammissione» venisse «accolta dalle autorità» di quest'ultimo Paese: e ciò anche quando fosse stata manifestata la volontà di chiedere in Italia protezione internazionale. In tal caso, il profugo non verrebbe indirizzato in questura per la formalizzazione dell'istanza di protezione: questo in base a un accordo del 1996 tra l'Italia e la Slovenia. Accordo che contrasta con il Regolamento di Dublino, laddove si impone allo Stato in cui si trova lo straniero di seguire una precisa procedura e di consentire la presentazione della domanda di asilo. Inoltre, le misure di riammissione vengono attuate in assenza di precise regole.
Nella risposta a quella interpellanza si legge ancora (attenti alle parole): «L'esecuzione di tale tipologia di riammissione non comporta la redazione di un provvedimento formale, applicandosi per prassi consolidata le speditive procedure previste dal relativo Accordo di riammissione». Per comprendere che cosa si intenda con quel «speditive» si legga l'intervista a Osman prima ricordata e le numerose testimonianze che in questi giorni, finalmente, vengono fatte conoscere.
Quanto fin qui detto si deve in primo luogo, e ancora una volta, all'inettitudine dell'Unione Europea. Tuttavia, questo non esime l'Italia dalle proprie responsabilità. Ora che sappiamo ciò che sappiamo, e nell'attesa che l'Europa si doti di una strategia comune, al nostro governo si deve chiedere che almeno non siano più applicate le misure di riammissione accelerata e semplificata nei confronti di chi, arrivato in territorio italiano, chiede protezione. Sarebbe una decisione coerente con l'articolo 10 della Carta Costituzionale e che, se non altro, potrebbe "limitare il disonore" di una vicenda che lede in profondità quei valori ai quali l'Italia e l'Europa dicono di volersi ispirare.