Pubblicato in 2017, Le notizie del portale a buon diritto il 06 lug, 2017
Luigi Manconi: Perché la legge sulla tortura è un'occasione mancata
L'Espresso, 6 luglio 2017
di Federico Marconi
Il presidente della Commissione diritti umani del Senato non è soddisfatto dall'approvazione della legge: "Della mia proposta rimane molto poco. Ha pesato la sudditanza della politica nei confronti delle forze di polizia"
"Si poteva e si doveva fare di più". È amareggiato Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, dopo l'approvazione della legge sul reato di tortura da parte delle camere. Nel 2013 il senatore del Pd era stato il primo firmatario della proposta di legge per l'introduzione del delitto nel codice penale: un testo stravolto "di cui rimane molto poco".
Le Camere sono riuscite ad approvare una legge sul reato di tortura, 29 anni dopo la prima proposta. La legge, però, sembra non convincere tutti.
Il parlamento poteva e doveva fare di più. Le Camere avrebbero potuto seguire l'ispirazione e le conseguenti disposizioni previste dalla Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura del 1984. A partire dalla qualificazione del delitto come reato proprio: ovvero imputabile ai pubblici ufficiali e a chi esercita pubblico servizio (ad esempio: i medici che hanno legato per 87 ore a un letto di contenzione Franco Mastrogiovanni , provocandone la morte). Un reato, quindi, direttamente derivato dall'abuso di potere: cioè dal ricorso alla tortura da parte di chi pur detiene legalmente in custodia un cittadino. Nel testo approvato si tratta invece di un atto di violenza tra individui, paragonabile a qualunque altra forma di lesione. Qualificare la tortura come reato proprio non significa affatto volersi accanire contro i corpi di polizia, bensì sottolineare i trattamenti inumani o degradanti all'interno di un rapporto di potere profondamente diseguale, di un uso illegittimo della forza, di un abuso di autorità.
Lei si è rifiutato di votare la legge, anche essendone stato il primo firmatario. Come risponde a chi afferma "meglio questa legge che nessuna legge"?
Fin troppo spesso, siamo indotti a votare proprio a motivo di quella riflessione, sintetizzata nella frase: "meglio una qualsiasi legge che nessuna legge". Ma, in questo caso, votare un simile testo sarebbe andato a scapito della chiarezza su una materia davvero cruciale. Sono stato incerto fino all'ultimo, fino a quando ho deciso di non partecipare al voto (dello scorso 16 maggio al Senato, ndr). Molti tra i miei amici e tra chi mi aiuta ad assumere decisioni così importanti erano favorevoli a un voto positivo. Ma poi ho deciso di non partecipare al voto, persuaso dalle considerazioni del pubblico ministero del processo per i fatti della Diaz, dottor Zucca. Durante il dibattimento, Zucca ha spiegato esaurientemente come gli atti di violenza commessi non sarebbero stati qualificati come tortura in presenza della legge appena approvata.
Cosa rimane del ddl da lei proposto a inizio legislatura in quello approvato ieri? Sono stati fatti troppi compromessi?
Rimane poco, pochissimo. Per non apparire un nichilista sedotto dal "tanto peggio, tanto meglio", sottolineo due punti positivi: il divieto di estradizione per gli stranieri che nel proprio paese potrebbero essere sottoposti a tortura e, poi, il significato simbolico che la legge può assumere. Un significato tenue, troppo tenue, ma che comunque può funzionare in qualche modo - me lo auguro di cuore - da monito, da deterrenza, da segnale che chiama tutti alla vigilanza.
Perché si è impiegato così tanto tempo per introdurre il reato nel nostro ordinamento?
Ha pesato una sorta di complesso di sudditanza di quasi tutta la classe politica nei confronti delle forze di polizia, forse un senso di colpa o un sentimento di inferiorità. In ogni caso, si preferisce che i corpi di polizia restino così come sono: compatti e omogenei, gerarchicamente immobilizzati e scarsissimamente permeabili a quanto accade nella società e, di conseguenza, sempre pronti a tutelare gli interessi di quanti tra loro commettono reati, ricorrono a trattamenti inumani o degradanti, esercitano la tortura. E, invece, sarebbe interesse dello Stato democratico indurre i corpi di polizia ad autoriformarsi, a sottoporsi a un processo di verifica delle proprie convinzioni democratiche, ad acquisire consapevolezza dei rischi che quel mestiere, inevitabilmente, comporta. Ciò potrebbe anche produrre qualche crisi interna, determinare fratture ideologiche, creare confronti aspri: ma è essenziale che la stragrande maggioranza di poliziotti e carabinieri si differenzi dalle esigue minoranze che non rispettano le leggi, i diritti e le garanzie del cittadino e che spesso sono tentati da ideologie fascistoidi e razzistiche. Si veda quanto è accaduto nei mesi scorsi in due delle caserme dei carabinieri della bassa Lodigiana come ultimo e inquietante esempio.
Le associazioni vogliono mettersi da subito al lavoro per migliorare la legge. Crede che ci siano possibilità?
Temo che la legge non potrà essere riformata e migliorata nel giro di poco tempo. Ma non per questo si deve rimanere con le mani in mano. È possibile esercitare una forma di controllo democratico sugli abusi del potere nella loro forma violenta; è possibile solidarizzare con i poliziotti onesti e leali affinché riconoscano che i loro veri nemici sono i colleghi che ricorrono alla violenza e quei gruppi politici che, quei colleghi, difendono ad ogni costo. È possibile, infine, sostenere quei cittadini (in particolare quelle cittadine) che, armati solo della loro intelligenza, da anni difendono l'onore dei propri cari e chiedono giustizia per la loro morte: da Lucia Uva a Ilaria Cucchi, da Grazia Serra a Domenica Ferrulli, da Elena Guerra a Claudia Budroni.