Pubblicato in 2016, Le notizie del portale a buon diritto il 06 set, 2016
Sul burkini e su altre complicate questioni
l'Huffington Post, 06-09-2016
Luigi Manconi Federica Graziani
Per quanto in apparenza futile e pesantemente deformata da sgangherate approssimazioni, la discussione estiva sul burkini richiama questioni cruciali, che molto hanno a che fare con il tema del rapporto tra confessioni religiose, società democratiche e istituzioni laiche. Cosa si può ricavare da quella discussione? Uno, la libertà non s'impone. Ovvero, l'emancipazione degli stili di vita e dello stesso abbigliamento non può essere l'esito di un dispositivo di legge. Due, l'eguaglianza non s'impone. Ovvero, la scelta del burkini è tale solo se pienamente consapevole e voluta dalla donna che lo indossa. Tre, l'integrazione non s'impone. Ovvero, il superamento di comportamenti regressivi e di condotte oscurantiste deve essere il risultato di un confronto, anche aspro, di scambi culturali e relazioni sociali.
In altre parole, il conflitto su questioni tanto laceranti è materia di volontà e non di diritto. Il diritto deve intervenire, eccome, anche con divieti e sanzioni, quando e solo quando le controversie culturali, ideologiche e confessionali costituiscano un problema di sicurezza (il che avviene meno frequentemente di quanto si creda) o arrivino a violare i diritti fondamentali della persona: l'accesso all'istruzione, la parità di genere, l'integrità fisica, e altri ancora.
Proviamo a considerare una simile problematica anche dal punto di vista del dibattito che faticosamente e spesso dolorosamente attraversa l'Islam italiano, tenendo presente che esso è costituito e da un numero rilevante di stranieri e da una certa quota di italiani diventati musulmani. È utile riprendere, in proposito, la discussione che ha animato e anima il confronto all'interno delle comunità musulmane presenti nel nostro paese, da sempre assai vivace, e che si è manifestato con particolare intensità negli ultimi mesi, anche sul piano pubblico. Sia chiaro, in questo caso non si tratta di un conflitto tra favorevoli al terrorismo jihadista e critici incondizionati di esso, ma di una dialettica tra musulmani italiani democratici e musulmani italiani altrettanto democratici (la pensa diversamente la carissima amica Maryan Ismail, che pure tanto ha fatto per incentivare la democratizzazione dei musulmani nel nostro paese). Da questo punto di vista, la polemica tra Sumaya Abdel Qader, consigliera comunale milanese eletta nelle liste del Pd, e Davide Piccardo, dirigente del Caim (Coordinamento delle Associazioni Islamiche di Milano), è sommamente istruttiva. Ed è significativo che il tema non siano le stragi della jihad - incondizionatamente condannate da entrambi - ma il giudizio sul "contro-golpe" di Recep Tayyip Erdo?an e sull'attuale regime dominante in Turchia. Molto significativo, dicevamo, perché la posta in gioco è, come dire, più sofisticata: non il solo ripudio della barbarie terroristica, bensì la valutazione della qualità di un sistema politico, e i criteri di democrazia cui si ricorre per valutarlo.
Le affermazioni più immediate in scena sulle bacheche Facebook, a una manciata di ore dalla diffusione delle prime notizie del tentato golpe della notte del 15 luglio in Turchia, già chiarivano una frattura essenziale fra le posizioni della consigliera democratica e quelle del portavoce del Caim. "Chi sostiene un colpo di Stato militare è un infame", "Ho visto militari presi a schiaffoni che manco Bud Spencer", "Gulenisti e massoni non vi invidio per niente": così fra il 15 e il 16 luglio si esprimeva Piccardo. Altrimenti orientate le dichiarazioni di Abdel Qader: "Turchia: si parla di un tentativo di colpo di Stato. (...) Restiamo lucidi", "Molto molto interessante quello che è successo questa notte. (...) Non c'è neppure accordo sul significato di democrazia, laicità, libertà, eccetera, a tutte le latitudini del mondo. (...) Ciò che regna questa mattina è la divisione in due tra i pro e anti tentato colpo di stato. Ognuno con le sue argomentazioni, molto intolleranti l'uno verso l'altro".
Questa differenza nei primissimi commenti dei due, che sembrava manifestarsi inizialmente nei termini di una diversa prudenza nell'espressione delle proprie opinioni, si è andata approfondendo fino a coinvolgere due visioni dello stato di democrazia di un paese, e del suo rispetto dei diritti umani e delle libertà politiche e civili, che si sono rivelate profondamente distanti l'una dall'altra.
Il 18 luglio Piccardo insisteva sul dato dell'ampio consenso popolare con cui governa Erdo?an, ricordando come l'Akp - partito di maggioranza all'interno del Parlamento turco, di cui Erdo?an è leader - negli ultimi 14 anni abbia quasi sempre vinto tutte le tornate elettorali; ribadiva come l'atteggiamento della stampa occidentale, ostile all'odierna politica turca e a chi la governa, non rispetti la volontà del popolo turco - chiaramente espressa nel voto - fino a delegittimarla del tutto; e prospettava infine l'ipotesi che questa compressione della possibilità di un popolo di scegliere ed eleggere liberamente i propri rappresentanti avesse gettato i semi per la crescita di nuove violenze, di nuovi conflitti, di nuovi estremismi. Il coordinatore del Caim chiosava le sue riflessioni affermando: "Forse in Turchia gli standard dei diritti umani e civili e della democrazia non sono i nostri, ma non saprei giudicare perché ogni cultura ha la sua via; però ritengo assolutamente grave e vergognoso sostenere un colpo di stato"; e invitava coloro i quali in quei giorni gridavano alla dittatura e parlavano di arresti indiscriminati di giudici e giornalisti a informarsi su chi fossero quei giudici e quei giornalisti perché "anche un giudice e un giornalista possono essere estromessi e arrestati se fanno parte di una rete eversiva".
Un'idea di democrazia, quella sostenuta da Piccardo, che fa del momento elettorale il cuore della legittimazione del patto sociale, in ottemperanza alla salvaguardia del principio della sovranità popolare. Se è però assodato che il popolo turco esercita la propria sovranità attraverso la rappresentanza elettiva, che la maggioranza dei turchi chiamati alle urne dà ininterrottamente la propria preferenza al partito di cui Erdo?an è leader sin dal 2002, e che quindi il funzionamento del sistema democratico in Turchia è garantito da quell'"insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni collettive" (Bobbio) - definizione minima di ordinamento democratico - siamo appena alle premesse di un discorso molto più complicato. Quella definizione minima di ordinamento democratico deve, per esempio - ed è, si capirà, un esempio tutt'altro che trascurabile - garantire la tutela incondizionata dei diritti fondamentali della persona e la piena libertà di pensiero, di espressione, associazione e manifestazione. Senza il riconoscimento di queste due essenziali famiglie di diritti, che debbono innervare e sostanziare il concetto stesso di democrazia, essa rischia di rinsecchirsi, di esaurirsi in un sistema di mere procedure formali, di ridursi a un simulacro vuoto. Insomma, senza la garanzia della piena esigibilità dei diritti individuali e sociali del cittadino, è lo stesso ordinamento democratico che perde il fondamento primo della propria identità. In questo abbaglio consapevole, però, non precipitano solo ed esclusivamente i fan dello stato islamista di Erdo?an, ma una parte assai rilevante delle opinioni pubbliche e degli osservatori degli Stati democratici, e una quota ancora più significativa delle sinistre occidentali.
E, allora, cosa c'entra tutto questo con il dibattito tra Sumaya Abdel Qader e Davide Piccardo? C'entra, eccome se c'entra, perché se ne può dedurre che le differenze anche profonde nel ragionamento dell'una - Abdel Qader - e dell'altro - Piccardo, pur se condizionato in quest'ultimo caso dalla fede religiosa - non trovano in questa il loro discrimine fondamentale, né tanto meno esclusivo. Per capirci, siamo in presenza di due musulmani democratici che coltivano due diverse concezioni della democrazia, cosa che ci accade praticamente tutti i giorni di verificare nel nostro rapporto con tanti connazionali, come noi non influenzati da questa o quella fede religiosa.
Dopodiché il conflitto si sposta su un altro campo, a nostro avviso altrettanto essenziale, e che, non a caso, richiama ancora la grande questione dei diritti fondamentali della persona: la parità tra i generi, l'autodeterminazione individuale, il ruolo della soggettività. Qui lo scontro tra due musulmani entrambi democratici può essere incandescente quanto quello tra un democratico agnostico e un democratico, chessò, calvinista o induista. Insomma, possiamo immaginare uno stato democratico che sia allo stesso tempo teocratico?