Pubblicato in 2016, Le notizie del portale a buon diritto il 20 set, 2016
Il dolore del paziente deve essere centrale quando si parla di eutanasia
Da Internazionale del 20/09/2016
di Luigi Manconi
A parte l’ilare futilità di alcuni (Maurizio Lupi: “Erode è tornato”, e chissà cosa starà per dichiarare Beatrice Lorenzin), l’attuale discussione sull’eutanasia dei minori risulta assai interessante. La stessa contrapposizione, per così dire, tra favorevoli e contrari si è rivelata per una volta – e provvidenzialmente – meno rigida e più problematica di quanto fosse apparsa in precedenza.
E tuttavia è come se nella riflessione collettiva rimanesse ancora un vuoto che si fatica non solo a colmare ma, ancor prima, a guardare. Mi spiego: la gran parte delle questioni sollevate sembra di grande rilievo. Anche quella che interpella i soli credenti e che si esprime nell’assunto: la vita è un dono di Dio e solo Dio può disporre di essa. Intorno a quell’affermazione, ruotano le obiezioni più robuste formulate dalla cultura cattolica.
Ma è stato proprio un autorevole esponente di quella stessa cultura a evidenziare come, se così fosse, si tratterebbe della singolarissima anomalia di un dono che resta proprietà del donatore. D’altra parte, è vero che il rovesciamento speculare di quell’assunto non può tradurre il principio dell’autodeterminazione in una sorta di nichilismo egotico e privatistico. Un atteggiamento che spoglierebbe il dono della vita della sua dimensione di acquisto universale, e dunque inseparabile dal rapporto con la collettività, per ridurlo a consumo solitario.
Il dato essenziale
Insomma, non basta dire: la vita è mia e ne faccio ciò che voglio. E questo vale ancor più quando la volontà personale di autodeterminazione è mediata da altri o delegata a terzi (i genitori, in primo luogo), come nel caso di un minore. Ma queste sono le “complicazioni” che solleva chi, come me, è favorevole all’eutanasia, pur se esclusivamente in situazioni estreme e a condizioni tassativamente definite. In ogni caso, la discussione in corso, quanto più si fa sofisticata tanto più sembra sopraffatta da considerazioni “esterne”, ispirate da concezioni antropologiche o ideologiche o teologiche. Tutte importantissime, sia chiaro, ma che rischiano di stravolgere o – appunto – rimuovere il dato essenziale.
Il quale dato essenziale, nella stragrande maggioranza dei casi, è uno e uno solo: il dolore. Accertato che allo stato attuale dello sviluppo delle scienze mediche una quota rilevante di sofferenze derivate da particolari patologie non è sedabile, la questione non può essere elusa. E invece, ancora una volta, il dibattito pubblico, spesso raffinatissimo, ha solo sfiorato questo “fattore umano troppo umano”.
E, infatti, è possibile essere favorevoli o contrari per le ragioni prima richiamate che rimandano a concezioni del mondo e a idee sulla creazione, a categorie filosofiche o a valutazioni medico-scientifiche, ma tutto questo mi sembra successivo – e, dunque, in qualche misura secondario – rispetto al dato materiale prioritario e ineludibile, rappresentato dalla sofferenza fisica lancinante. E non sedabile o mitigabile.
Come possono un padre e una madre decidere la continuità nel tempo di un dolore intollerabile?
Si tratta di una esperienza per certi versi unica, anche se condivisa da milioni di esseri umani, in quanto percepibile solo direttamente e personalmente nella fisicità del proprio organismo: e, dunque, nella rete complessa delle interrelazioni tra nervi e muscoli, tra cervello e sensibilità, tra patimenti del corpo e facoltà sensoriali. È qualcosa di cui non si può essere partecipi, se non per il fatto di viverlo, appunto, sulla propria pelle.
Questo nodo cruciale – fateci caso – è stato singolarmente trascurato anche nella più recente discussione. Poniamo il caso di una persona a noi prossima: come potrebbero le sue e le nostre convinzioni religiose o umanistiche, le sue e le nostre interdizioni etiche, i suoi e i nostri tabù “risolvere” il problema dello strazio prodotto da un dolore intollerabile? E come potrebbero convenzioni interdizioni e tabù reggere in presenza di simili pene?
E, infine, chi ci autorizza a consentire che quella sofferenza lancinante continui a martoriare corpo e spirito di una persona a noi vicina? Sia chiaro: anche in presenza di una simile circostanza, è possibile che molti offrano una risposta negativa, ma quello che qui preme evidenziare, è che, in ogni caso, da quello strazio fisico si deve partire. Quello è il punto di vista da privilegiare.
Una sconcertante sottovalutazione
Se così si facesse, anche la tragedia di un minore e la difficoltà di percepirne e accoglierne la volontà più autentica, si presenterebbe in modo totalmente diverso. Come possono un padre e una madre decidere la continuità nel tempo, e per chissà quanto tempo, di un dolore intollerabile? Chi dà loro l’autorità di autorizzare il perpetuarsi di un’agonia senza più scampo e senza più lenimento?
E anche l’astenersi dall’assumere una decisione, quale quella eutanasica, rappresenta comunque una tremenda e rischiosa possibilità: e non è di per sé “giusta”, solo in quanto non comporta la soppressione di una vita umana. Se un tale punto di vista risulta così tanto trascurato nella riflessione collettiva è principalmente per due cause essenziali. La prima rimanda a una sconcertante sottovalutazione del tema del dolore nella cultura e nella cultura medica del nostro paese: l’Italia è tra gli ultimissimi paesi occidentali nel ricorso ai medicinali oppiacei, nella disponibilità di hospice e strutture per le cure palliative, nello studio e nella ricerca in materia di medicina del dolore. In sintesi, nella mentalità comune e – ciò che è peggio – nella sensibilità della classe medica, il dolore non è considerato come una patologia autonoma.
A ciò si aggiunga il fatto che in un paese come il nostro, tuttora largamente condizionato da conflitti culturali e ideologici, questioni anche essenziali fatichino a essere trattate in maniera pragmatica e si tenda, piuttosto a “giuridicizzarle” e a “eticizzarle” ( in senso religioso o in senso laico). In un simile scenario, lo strazio del corpo del paziente rischia di non essere ascoltato.