Pubblicato in 2016, Le notizie del portale a buon diritto il 27 lug, 2016
Gli italiani sono razzisti?
Internazionale, 26 luglio 2016
Luigi Manconi
Gli italiani sono razzisti? Ovvio che no, ma è altrettanto ovvio che oggi in Italia forme e manifestazioni di razzismo si diffondono e si consolidano. Uno degli espedienti dialettici più frequentemente utilizzati dal conformismo nazionale – quello della retorica politicamente scorretta, usata sia da Matteo Salvini sia da diversi mezzi d’informazione – si affida a un meccanismo elementare. Così sintetizzabile: voi (sinistra, radical chic, Caritas, buonisti…) siete i veri intolleranti perché sostenete che “l’Italia è razzista”.
Che scemenza. Per motivi di studio, e in ragione della mia età, mi interesso di questi temi da oltre un quarto di secolo – quando gli stranieri in Italia erano poco più di trecentomila – e mai, dico mai, ho detto o scritto una sciocchezza simile. E nemmeno ho utilizzato altre formule o termini equivalenti. E questo vale per chiunque abbia affrontato seriamente il fenomeno. Aggiungo che mai ho definito tout court “razzista” la Lega Nord, nonostante i reiterati tentativi, messi in opera da quest’ultima, per meritarsi un tale appellativo.
Ovviamente, rappresentazioni superficiali e ancor più titoli di giornale e messaggi grossolani e primitive etichette ideologiche possono aver indotto, in taluno e talvolta, letture tanto sintetiche quanto rozze e prive di qualsiasi fondamento di realtà, come “gli italiani sono razzisti” o, che so, “Varese è razzista” e “Catanzaro è razzista”. Sciocchezze, appunto. Per giunta venate di quel fondamento costitutivo di ogni razzismo che è lo stigma generalizzante: attribuire, cioè, a una intera collettività (piccola o grande) un connotato proprio di alcuni individui (pochi o molti) appartenenti a quella stessa collettività.
Precisato questo, si può serenamente affermare che “l’Italia non è razzista”, fermo restando che all’interno dell’Italia si ritrovano, eccome, forme e manifestazioni di razzismo. Non si tratta affatto di questioni di lana caprina, bensì di una delicatissima rilevazione sociale che richiede un’attenta capacità di analisi. Che in Italia, e da decenni, si verifichino atti di vero e proprio razzismo è indubbio. Ma ciò, oltre a non comportare la conseguenza che gli italiani siano razzisti, non implica nemmeno che il numero di razzisti sia più elevato di quanto si rilevi in altre nazioni. Al contrario, si può dire che il nostro paese presenta una situazione particolare, dove il processo di integrazione degli stranieri risulta più arretrato e – al contempo – la violenza contro gli stranieri è meno diffusa e aggressiva.
In altre parole, ci sono meno persone di origine non italiana nei lavori maggiormente qualificati e nelle professioni, nel giornalismo e nella comunicazione e nello spettacolo, tra i quadri e i dirigenti di organizzazioni sociali e politiche. Ma, allo stesso tempo, non c’è stato in Italia – vi stupirò – un vero e proprio “partito razzista” (come nella gran parte dei paesi europei): dico questo perché la Lega e Fratelli d’Italia (e perfino CasaPound), certo attraversati da potentissime tentazioni razziste e promotori in prima persona di mobilitazioni anche assai aggressive, finora non hanno avuto l’ostilità anti immigrati come esclusivo connotato qualificante (che è quanto, appunto, definisce il “partito razzista”). Già ora, tuttavia, le cose stanno cambiando.
Non solo. Il fatto che oggi in Italia siano diffuse manifestazioni di razzismo, ma non per questo si possa parlare di una consistente quota razzista della società, richiede un’altra importante distinzione. Purtroppo, si è diffusa nel linguaggio pubblico l’equazione tra razzismo e xenofobia, termini che rimandano invece a due categorie estremamente diverse. Xenofobia è, alla lettera, paura dello straniero. Ma, contrariamente a quanto si crede, il passaggio dalla xenofobia al razzismo è tutt’altro che scontato, facile e rapido. E quella che oggi è, sull’intero territorio nazionale, una diffusa sensazione di allarme nei confronti degli stranieri non è fatale che si trasformi in ostilità e che, infine, precipiti in violenza. E tuttavia succede.
Come sarebbe potuto accadere, nei giorni scorsi, a Fiumicino dove – qui c’è davvero poco da sottilizzare – l’astio violento contro due decine di giovani richiedenti asilo si è manifestato come aperto odio razziale e oltre un centinaio di cittadini si è lasciato guidare da un pugno di agitatori che, fieramente, proclamavano: “Qui sta avvenendo la sostituzione di un intero popolo, il genocidio di un’intera razza. Quella bianca”.
D’altra parte, detto questo, va tenuto ben presente che il ricorso superficiale all’etichetta di razzista produce un’ulteriore e pericolosa conseguenza sociale. Un effetto confermativo, cioè, che induce molti a dirsi e a farsi progressivamente intolleranti, anche al di là delle intenzioni e delle convinzioni: e proprio perché definiti tali (razzisti) da altri. Quanto fin qui detto ha due implicazioni importanti.
Il naufragio del 3 ottobre
La prima: il quadro descritto ha avuto una sua plausibilità fino a qualche anno fa. Il 3 ottobre 2013 con il naufragio davanti all’isola di Lampedusa qualcosa cambia in profondità. Si realizza una certa polarizzazione: alcuni settori della società italiana acquistano consapevolezza e mobilitano energie positive, altri si irrigidiscono in uno stato di ansia, diffidenza, inimicizia. Tra queste due posizioni c’è la grande zona grigia degli incerti, sui quali pesa l’insidia della xenofobia. Un sentimento che, come si è detto, può diventare manifestazione di aperta intolleranza, anche fisica, o può essere controllato, mediato e trattato politicamente attraverso strategie intelligenti e razionali. E proprio qui interviene la seconda considerazione.
Qui, proprio qui, si gioca tutto intero il ruolo della politica. È la politica che può svolgere una funzione di razionalizzazione e negoziazione o, all’opposto, può funzionare da irresponsabile incentivo e detonatore. Tanto più che, come dicevo, qualcosa è cambiato in profondità. L’episodio di Fiumicino e quanto succede qui e là in Italia, a opera di minoranze ideologiche e razziste e, talvolta, di appartenenti a forze di polizia e ad apparati dello stato e, ancora, la vera e propria solidarietà nei confronti di responsabili di atti criminali, come l’omicida del profugo a Fermo (il 6 luglio scorso), dicono in modo inequivocabile che oggi sta crescendo sensibilmente una sorta di mobilitazione di natura esplicitamente razziale.
Non è facile valutare la consistenza di questa mobilitazione, che non è identificabile solo nei termini di un’azione collettiva, e che soprattutto dipende da molti fattori ancora da considerare. Ne evidenzio due. Il primo riguarda l’elaborazione di politiche pubbliche per l’immigrazione e per l’asilo, che riducano al minimo – eliminarli non è possibile – gli effetti negativi che l’afflusso di stranieri produce sugli strati popolari e nelle aree territoriali dove maggiore è il disagio sociale. Su questo piano, quasi tutto è da inventare, dal momento che finora le politiche pubbliche hanno rivelato un deficit spaventoso di preparazione e programmazione. È qui, di conseguenza, che bisogna investire le maggiori risorse intellettuali e materiali, nelle strutture per l’accoglienza e nelle strategie per l’inclusione e l’integrazione.
Ma c’è un altro fattore al quale si deve prestare la massima attenzione. Sembra che, all’origine dell’omicidio di Fermo, vi sia l’offesa indirizzata verso la donna nigeriana: “scimmia”. Non si tratta di inseguire coincidenze e correlazioni, corresponsabilità e correità, ma non si può ignorare un dato significativo. Nel settembre scorso, il senato della repubblica negò l’autorizzazione a procedere nei confronti di Roberto Calderoli, sia per il reato di diffamazione sia per l’aggravante di razzismo che quel reato avrebbe potuto prevedere, dal momento che il senatore della Lega Nord aveva apostrofato l’allora ministro Cécilie Kyenge proprio con quella definizione: “orango”. Dettagli? Libertà di espressione che mai deve essere conculcata, nemmeno quando la formula sia orribile?
Le cose, ahinoi, sono più complicate: il termine “scimmia” è appunto un’espressione - manifestazione di pensiero e di libertà di parola - ma se a pronunciarla è il vicepresidente del senato le conseguenze possono rivelarsi dirompenti. Così, infatti, viene messo in crisi un tabù, viene compromessa un’interdizione morale, si incrina un disvalore diffusamente accettato ovvero quella sorta di patto civile che aveva funzionato come veto etico, comunemente accolto, all’utilizzo nel discorso pubblico di categorie dichiaratamente razziste. In altri termini, si legittimano le parole del disprezzo, della degradazione e del disgusto.
Insomma, si deve fissare un limite? Una soglia oltre la quale va nuovamente affermata una interdizione politica e morale nei confronti del razzismo e delle parole del razzismo? Penso di sì, ma se ne discuterà altrove. Qui, mi interessa evidenziare prioritariamente alcune considerazioni politiche. Innanzitutto penso che il razzismo, comunque lo si definisca, è destinato a rimanere orientamento di minoranza, anche consistente, ma di minoranza. I modestissimi risultati della Lega, di Fratelli d’Italia e di CasaPound alle recenti elezioni amministrative ne sono una conferma inequivocabile. Il che non deve tranquillizzarci affatto, anche perché va fatta una seconda considerazione. Il “pericolo razzista” ha già avuto il suo effetto perverso: ha indotto le forze non razziste ad assumere sulle questioni dell’immigrazione e dell’asilo posizioni e politiche talmente moderate, e spesso conservatrici e restrittive e selettive, da risolversi in dispositivi e strategie di chiusura e di esclusione.