Pubblicato in 2016, Le notizie del portale a buon diritto il 01 feb, 2016
Family day, i moralisti ci hanno rubato la morale
Pagina99, 31-01-2016
Luigi Manconi
Un evento montato su una scenografia falsa: quella che vede gli edonisti e gli interessi di qua, i valori e l’etica di là. Le cose non stanno così
Un evento politico allestito davanti a una grandissima platea e sapientemente teatralizzato, così che il messaggio trasmesso abbia una plastica efficacia e determini una potente suggestione. Al di là di come andrà a finire la vicenda parlamentare delle unioni civili, il family day un risultato l’ha già ottenuto. La discussione pubblica ha finito col riproporre, ancora una volta, una falsa rappresentazione delle posizioni in conflitto e delle diverse motivazioni culturali e politiche che le ispirano.
In estrema sintesi, quella falsa rappresentazione ha accreditato una acuta frattura tra mondo dei principi e mondo degli interessi. Ovvero, tra mondo dei valori, per loro stessa natura razionali e misurati, e mondo dei desideri, per definizione irrazionali e eccessivi. La conseguenza è grottesca. Come già in molte altre circostanze, la controversia sembra opporre uno schieramento ad alta intensità valoriale e uno schieramento tutto concentrato sull’acquisizione di diritti.
È davvero una vecchia e brutta storia che si ripropone e che limita e compromette, in misura rilevantissima, l’azione pubblica per l’affermazione dei diritti, riducendola a una sorta di battaglia corporativa. In altre parole, le argomentazioni dei sostenitori dei diritti e, in particolare, dei diritti per le minoranze sessuali, vengono raffigurate come espressione di una concezione egoisticamente individualista, ispirata da un’idea edonista, consumista e libertaria/libertina della vita e dei rapporti umani. Un’idea che troverebbe il suo fondamento nell’assolutizzazione del desiderio come criterio supremo e pulsione dominante la vita sociale, nella sua retorica e nella sua ideologia. All’opposto, i critici di un’interpretazione troppo espansiva e ugualitaria delle unioni civili e, in generale, del sistema dei diritti, farebbero riferimento a valori forti e non negoziabili, a una morale comprensiva ma rigorosa, a una concezione severa dell’etica pubblica destinata a combinarsi virtuosamente con quella privata.
Il risultato di una simile falsa rappresentazione è rovinoso. Per due ragioni. In primo luogo perché toglie alla mobilitazione per l’affermazione dei diritti la sua ispirazione più profonda e la sua base più robusta, quella che si affida in ogni caso a principi morali e a valori condivisi: ancorché differenti da quelli, di origine religiosa, nei quali si riconosceva, fino a qualche decennio fa, la maggioranza della società nazionale. In secondo luogo perché rischia di ridurre quella stessa mobilitazione alla somma di una serie di interessi individuali, a loro volta frutto di particolarismi egoistici.
Le cose non stanno affatto così. Consideriamo la dimensione più circoscritta e concreta di quella relazione che aspira a essere riconosciuta come unione civile. È un rapporto, questo, tra persone dello stesso sesso, costituito intorno ad alcuni fini: la reciprocità e il mutuo affidamento, un progetto di vita condiviso, la promessa di un vicendevole sostegno, la volontà di una continuità nel tempo e di una prospettiva futura. In altri termini, almeno nelle intenzioni – ma solo queste, ovviamente, possiamo valutare – siamo in presenza di un rapporto affettivo costruito su valori forti e dotato di una sua intensa moralità. Non a caso, i suoi avversari tentano di screditare quel rapporto attraverso una sorta di neutralizzazione e una sua riduzione a mero contratto economico. E altrettanto non a caso, tutti, salvo rarissime eccezioni, si dicono disposti a riconoscere diritti patrimoniali, ereditari, previdenziali, assicurativi e amministrativi, purché – sia chiaro – a titolo individuale e senza che ciò implichi la loro attribuzione a una coppia.
Così, in un colpo solo, le unioni civili perderebbero qualsiasi qualità di istituto riconosciuto, privatizzando il legame tra i contraenti e riducendolo alla sfera esclusiva degli interessi materiali, sia pure i più meritevoli di tutela. La coppia, e la sua “unione civile”, perderebbe qualsiasi rilevanza e, allo stesso tempo, qualunque spessore morale. A conferma di quanto si diceva: ovvero di una rappresentazione della controversia in corso come conflitto tra una concezione tutta economica (appunto edonistica e consumistica) e un’altra concezione, fondata sui valori. Quelli della tradizione familistica nazionale, che si vorrebbe naturale in quanto perpetuatasi nel tempo.
In questo schema, morale e naturale sono categorie che si alimenterebbero a vicenda, totalmente indifferenti alle enormi trasformazioni che hanno conosciuto le società umane e, al loro interno, le forme di vita e le concezioni dei rapporti tra i sessi, tra le generazioni e tra i genitori e i figli. Nel processo che ha prodotto quella che ho chiamato falsa rappresentazione, le responsabilità della sinistra sono enormi: per decenni si è delegata interamente la morale alle istituzioni e ai precetti della religione, concedendo loro un primato incondizionato. E si è ridotta la propria azione, e persino la propria aspirazione, al perseguimento dell’efficienza amministrativa e, nella più favorevole delle ipotesi, del buon governo. Si è dimenticato, così, che di pragmatismo si può anche morire. O, nel migliore dei casi, ritrovarsi esanimi. In conclusione, uno slogan buono per la sinistra – se c’è e se qualcuno si ostina cocciutamente a credervi – potrebbe essere: riprendiamoci la morale.