Pubblicato in 2015, Le notizie del portale a buon diritto il 08 mag, 2015
«Il carcere va abolito». Una proposta estrema «ma ragionevole, non siamo scemi»
Tempi, 08-05-2015
Chiara Rizzo
Intervista a Luigi Manconi (Pd), che insieme ad altri autori ha scritto un pamphlet per proporre l’eliminazione quasi totale della detenzione: «Funzionano di più le sanzioni economiche»
“Nel 1998, 5772 persone già condannate in via definitiva vengono scarcerate dopo aver finito di scontare la propria pena. Sette anni dopo, nel 2005, 3951 di loro saranno di nuovo in carcere, accusate o condannate per aver commesso nuovi reati. Si tratta esattamente del 68,45 per cento di quanti erano stati scarcerati nel 1998”: questi dati, forniti dall’amministrazione penitenziaria, sono alla base della tesi avanzata da un pamphlet appena pubblicato, Abolire il carcere (ed. Chiarelettere). Autori del libro sono tutti professionisti che conoscono bene la realtà del carcere, come il senatore Luigi Manconi (Pd), fondatore dell’associazione A Buon diritto, che ha accettato di parlare a tempi.it.
Senatore Manconi, il libro inizia con un’interessante citazione di cronaca rosa: “È stata Belén a esprimere le considerazioni più pertinenti a proposito della condanna a tredici anni di carcere di Fabrizio Corona. La donna, a quanto si sa, non viene da severi studi giuridici ma è evidentemente dotata di buon senso”. Perché scrivete così?
Perché Belén, in un’intervista al settimanale Oggi del 2014, ha spiegato come mai il suo ex fidanzato Fabrizio Corona fosse finito nei guai: «Lui ha un problema, ha fatto degli errori, ma in realtà l’unico problema che ha sono i soldi. Secondo me la condanna che dovevano dargli è una grandissima multa salata e basta. Lui è in galera perché ha una malattia per i soldi». Le parole di Belén dimostrano che in modo tortuoso, implicito e contraddittorio, la nostra ragionevole proposta corrisponde con il buon senso, che non è il senso comune. L’esistenza della prigione sarebbe un dogma saggio perché scontato, non razionale, frutto di una valutazione in termini di costi e benefici. Una persona, invece, si chiami Belén Rodriguez o Luigi Manconi, se è informata e messa nelle condizioni di riflettere lucidamente, può giungere alle stesse conclusioni.
Cioè che il carcere vada abolito?
L’esempio di Belén è significativo perché lei parlava di una persona che conosce “in carne e ossa”: è un aspetto importante perché si dovrebbero conoscere in carne e ossa i colpevoli, quando si parla di pene e di carcere. Belén, che si basa sul buon senso e sulla diretta conoscenza, spiega che Corona ne ha fatte di tutti i colori solo perché è affetto da una sorta di patologia, una plutopatologia, la chiamerei io. Se allora si volesse ragionare razionalmente tra la violazione della norma e la pena da scontare, si capirebbe che bisognerebbe sottoporre Fabrizio Corona a sanzioni che lo tocchino nel portafogli, per colpirlo veramente. Al carcere è preferibile una sanzione, magari estremamente elevata, che lo costringa a lavorare di più anche nel futuro. In questo piccolo episodio di cronaca mondana e cronaca nera c’è una lezione interessante.
La storia del carcere, scrivete, come modalità punitiva è “relativamente recente”. Prima si usavano le multe, la legge del taglione, la condanna a morte.
La legge del taglione è a suo modo garantista.
Come garantista?
Garantista. Quando si dice occhio per occhio, cosa si intende? Solo un occhio per ogni occhio che è stato tolto. È cioè una legge limitativa della pena: fino alla legge del taglione, se qualcuno cavava un occhio, veniva ucciso. La legge del taglione ha introdotto un principio alla base del diritto penale moderno, la proporzionalità della pena. Comunque sicuramente il carcere costituì un fattore di umanizzazione e ha sostituito la pena di morte. Fu un passo avanti, ma per questo abbiamo in mano una carta in più nel nostro ragionamento a favore dell’abolizione del carcere. Si tratta di un progresso, ma come tale è superabile. All’epoca di Beccaria il carcere venne considerato adeguato, ora ha fatto il suo tempo.
Sostenete che persino un boss come Bernardo Provenzano, come segnalato dai medici dell’Ospedale San Paolo di Milano, è oggi incompatibile con il carcere. Ma il carcere duro a vita almeno nei casi di chi ha commesso e commissionato decine di omicidi non è necessario?
Penso di dover dare due risposte molto distinte. La prima risposta è che il carcere duro è un concetto privo di senso. Il 41 bis e il carcere di alta sicurezza non sono due regimi che dovrebbero esprimere l’asprezza della pena o la massima afflizione del condannato. Hanno un solo scopo: impedire e interrompere le relazioni tra il reo carcerato e l’organizzazione criminale. Tutte le privazioni discendono da questo unico scopo. Non è che il nostro ordinamento prevede da una parte un carcere che fa male “5” e un altro, quello duro, che fa male “50”, cioè di più.
E la seconda risposta?
Riguarda il caso specifico di Provenzano. Ritengo che Provenzano non debba uscire dal regime di 41 bis, ma dal carcere. Infatti il nostro regime prevede una compatibilità tra il carcere e le condizioni di salute. Provenzano è stato giudicato da tre procure diverse come impossibilitato persino a partecipare ad un’udienza, perché incapace di intendere e di volere. E il nostro ordinamento prevede che chi è incapace di intendere e di volere non può stare in carcere. Una delle implicazioni dell’incapacità di intendere è l’essere incapace di nuocere consapevolmente all’altro: quindi non potrebbe più fare attività criminale.
Al di là del caso specifico, volete abolire il carcere anche per i mafiosi?
No. Ma secondo l’amministrazione penitenziaria, la percentuale di detenuti socialmente pericolosi è tra l’8 e il 10 per cento. Parliamo al massimo di 5.500 persone su circa 55 mila persone oggi detenute. Ci accontenteremmo di liberare dal carcere gli altri 49.500 detenuti. Siamo consapevoli di avanzare una proposta molto radicale, ma non siamo mica scemi: non stiamo dicendo di liberare Riina, ma di partire dal “detenuto massa”.
Chi è?
Nella massa, il 25-30 per cento dei detenuti sono o tossicomani o persone legate al mercato della droga: il tossicomane ovviamente dovrebbe stare ovunque eccetto che in carcere. Per circa 12 mila persone le misure dovrebbero essere allora le comunità di recupero o i domiciliari. Per le persone legate ai piccoli e medi traffici di droga, un’altra decina di migliaia di persone, il sistema sanzionatorio è abnorme e prevede pene eccessivamente alte, che potrebbero essere ridotte. Sempre nella “massa” c’è un’altra grossa fetta di persone detenute, tra il 20 e il 30 per cento, che sta in carcere per un illecito amministrativo. Si tratta ad esempio di persone arrestate perché clandestine, quelle per intenderci che arrivano sui barconi e non hanno i documenti. Oppure, dato che non hanno i documenti, commettono piccoli furti. Anche per queste persone si può prevedere una depenalizzazione. Il punto è che il carcere oggi è un’agenzia di stratificazione sociale.
Cioè?
È un sistema che accoglie e riproduce le diseguaglianze economiche. Il carcere ha assunto il ruolo di “surrogato”, svolgendo le funzioni di cura o di assistenza che il welfare oggi non svolge o svolge male. Così in carcere cresce il numero di coloro che sono alcolisti, malati di mente, senza fissa dimora o colpiti dalla crisi. È in modo assai considerevole la “prigione dei poveri”. È su quest’aspetto che col nostro libro chiediamo di intervenire.
Volete anche depenalizzare la maggior parte dei 35 mila reati previsti dal codice penale. Pensate che queste proposte potranno mai diventare legge?
Rispondo con un numero. In Francia finisce in carcere il 24 per cento dei condannati. Gli altri sono sottoposti solo a sanzioni. Non stiamo quindi parlando di una proposta utopica. Serve una volontà politica e devo ammettere che ultimamente si è cautamente manifestata. Il ministro Andrea Orlando ha una volontà riformatrice solida. Esattamente una settimana fa si è impegnato a eliminare il problema dei bambini in carcere sotto i 3 anni. È un passo avanti: ora lo aspettiamo al varco.