Pubblicato in 2016, Le notizie del portale a buon diritto il 25 apr, 2016

Rifugiati, servono permessi di soggiorno umanitari

Rifugiati, servono permessi di soggiorno umanitari | A Buon Diritto Onlus

LampedusaCorriere della Sera del 25 aprile 2016
di Luigi Manconi


Nell’autunno del 2013, a poche settimane dal naufragio del 3 ottobre davanti a Lampedusa, insieme al sindaco dell’isola, Giusi Nicolini, presentammo un piano di «ammissione umanitaria» all’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano. In sintesi, quel piano prevedeva un programma di resettlement (ovvero di re-insediamento), gestito dall’Unione Europea, di concerto con le organizzazioni umanitarie internazionali. Si prevedeva che le procedure di individuazione dei beneficiari di protezione umanitaria avvenissero nei luoghi di partenza verso l’Europa e fossero attuate attraverso le Delegazioni diplomatiche del Servizio europeo per l’azione esterna e la rete diplomatico-consolare degli Stati membri. Inoltre il piano considerava la realizzazione di presidi internazionali, creando le condizioni necessarie, nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo e nei luoghi di partenza o di transito dei migranti, per l’avvio della procedura di concessione di protezione umanitaria. Da allora, il piano di ammissione umanitaria ha fatto molti passi avanti. È stato condiviso da tanti, elaborato in modalità diverse, e richiamato in documenti ufficiali, programmi istituzionali e accordi internazionali. Ma, drammaticamente, non si è tradotto in fatti concreti e in concrete politiche. C’è di che disperarsi.
Ma due fatti nuovi inducono a nutrire ancora qualche fiducia. Il primo è che, dopo l’importante esperienza dei corridoi umanitari promossi dall’Unhcr, alcuni soggetti non pubblici (Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese e Comunità di Sant’Egidio) hanno realizzato un analogo progetto. L’obiettivo è quello di far giungere in Italia in ventiquattro mesi mille persone, principalmente dal Libano, dal Marocco e dall’Etiopia. Una volta in Italia, i richiedenti asilo riceveranno assistenza nella fase del completamento della procedura oltre che la sistemazione in un centro di accoglienza utile ad avviare un percorso di integrazione. Per ora le dimensioni sono modestissime rispetto all’enormità delle esigenze, ma intanto qualcosa è stato concretizzato. E si pensi a quanto di assai più ampio sarebbe realizzabile se a un simile progetto (magari gestito insieme dal pubblico e dal privato) fossero destinate le ingenti risorse ora dissipate in iniziative poco oculate.

Ma il secondo fatto che impone di considerare progetti ispirati a quel piano di «ammissione umanitaria», è la catastrofe annunciata ai nostri confini orientali. In Grecia i 40 mila profughi presenti si ritrovano imprigionati dalla chiusura delle frontiere di tutti i Paesi limitrofi: e i campi autogestiti sorti in prossimità del confine con la Macedonia, come quello di Idomeni, saranno svuotati lentamente. Da quando è in vigore il patto tra Ue e Turchia sono state attuate misure per l’applicazione dell’Agenda europea, come il trasferimento dagli insediamenti appena ricordati ai centri hotspot da cui sarà possibile accedere alla procedura di asilo. In ogni caso, da lunedì 4 aprile, sono cominciati i rimpatri in Turchia e già arrivano le prime denunce: quel Paese potrebbe rappresentare solo una tappa del viaggio di ritorno verso la Siria, come è avvenuto qualche mese fa quando già i rimpatri forzati su quella rotta erano stati un centinaio, donne e bambini inclusi. Non stupisce, dal momento che la Turchia non è nota per lo scrupoloso rispetto dei diritti umani. L’obiettivo del patto — limitare l’accesso nei Paesi europei ai soli richiedenti asilo — comincia già a traballare e non è difficile immaginare come la chiusura di una rotta porterà sicuramente all’apertura di un’altra. Che non sarà fuori, a sua volta, dal controllo dei trafficanti.

La soluzione migliore, oltre a quelle già elencate, rimane il rilascio di permessi di soggiorno temporanei per ragioni umanitarie, che permettano ai beneficiari di muoversi agevolmente all’interno dell’area Shengen. In questo modo verrebbe superato il meccanismo delle quote e la politica di re-location che finora non ha sortito alcun effetto: dalla sua attivazione, infatti, sono stati distribuiti in Europa appena cinquecento migranti provenienti dalla Grecia e dall’Italia. C’è ancora tutto da fare, ma si può iniziare a fare.Nell’autunno del 2013, a poche settimane dal naufragio del 3 ottobre davanti a Lampedusa, insieme al sindaco dell’isola, Giusi Nicolini, presentammo un piano di «ammissione umanitaria» all’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano. In sintesi, quel piano prevedeva un programma di resettlement (ovvero di re-insediamento), gestito dall’Unione Europea, di concerto con le organizzazioni umanitarie internazionali. Si prevedeva che le procedure di individuazione dei beneficiari di protezione umanitaria avvenissero nei luoghi di partenza verso l’Europa e fossero attuate attraverso le Delegazioni diplomatiche del Servizio europeo per l’azione esterna e la rete diplomatico-consolare degli Stati membri. Inoltre il piano considerava la realizzazione di presidi internazionali, creando le condizioni necessarie, nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo e nei luoghi di partenza o di transito dei migranti, per l’avvio della procedura di concessione di protezione umanitaria. Da allora, il piano di ammissione umanitaria ha fatto molti passi avanti. È stato condiviso da tanti, elaborato in modalità diverse, e richiamato in documenti ufficiali, programmi istituzionali e accordi internazionali. Ma, drammaticamente, non si è tradotto in fatti concreti e in concrete politiche. C’è di che disperarsi.
Ma due fatti nuovi inducono a nutrire ancora qualche fiducia. Il primo è che, dopo l’importante esperienza dei corridoi umanitari promossi dall’Unhcr, alcuni soggetti non pubblici (Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese e Comunità di Sant’Egidio) hanno realizzato un analogo progetto. L’obiettivo è quello di far giungere in Italia in ventiquattro mesi mille persone, principalmente dal Libano, dal Marocco e dall’Etiopia. Una volta in Italia, i richiedenti asilo riceveranno assistenza nella fase del completamento della procedura oltre che la sistemazione in un centro di accoglienza utile ad avviare un percorso di integrazione. Per ora le dimensioni sono modestissime rispetto all’enormità delle esigenze, ma intanto qualcosa è stato concretizzato. E si pensi a quanto di assai più ampio sarebbe realizzabile se a un simile progetto (magari gestito insieme dal pubblico e dal privato) fossero destinate le ingenti risorse ora dissipate in iniziative poco oculate.

Ma il secondo fatto che impone di considerare progetti ispirati a quel piano di «ammissione umanitaria», è la catastrofe annunciata ai nostri confini orientali. In Grecia i 40 mila profughi presenti si ritrovano imprigionati dalla chiusura delle frontiere di tutti i Paesi limitrofi: e i campi autogestiti sorti in prossimità del confine con la Macedonia, come quello di Idomeni, saranno svuotati lentamente. Da quando è in vigore il patto tra Ue e Turchia sono state attuate misure per l’applicazione dell’Agenda europea, come il trasferimento dagli insediamenti appena ricordati ai centri hotspot da cui sarà possibile accedere alla procedura di asilo. In ogni caso, da lunedì 4 aprile, sono cominciati i rimpatri in Turchia e già arrivano le prime denunce: quel Paese potrebbe rappresentare solo una tappa del viaggio di ritorno verso la Siria, come è avvenuto qualche mese fa quando già i rimpatri forzati su quella rotta erano stati un centinaio, donne e bambini inclusi. Non stupisce, dal momento che la Turchia non è nota per lo scrupoloso rispetto dei diritti umani. L’obiettivo del patto — limitare l’accesso nei Paesi europei ai soli richiedenti asilo — comincia già a traballare e non è difficile immaginare come la chiusura di una rotta porterà sicuramente all’apertura di un’altra. Che non sarà fuori, a sua volta, dal controllo dei trafficanti.

La soluzione migliore, oltre a quelle già elencate, rimane il rilascio di permessi di soggiorno temporanei per ragioni umanitarie, che permettano ai beneficiari di muoversi agevolmente all’interno dell’area Shengen. In questo modo verrebbe superato il meccanismo delle quote e la politica di re-location che finora non ha sortito alcun effetto: dalla sua attivazione, infatti, sono stati distribuiti in Europa appena cinquecento migranti provenienti dalla Grecia e dall’Italia. C’è ancora tutto da fare, ma si può iniziare a fare.